Discussioni:Salentinu
L'appartinenza linguìstica dû salintinu â lingua siciliana è scritta nta l'artìculu http://it.wikipedia.org/wiki/Lingue_romanze dâ wikipedìa taliana ntô quali c'è la classìfica linguìstica siquenti:
Gruppo siciliano (o "tricalabro"):
- tarantino
- salentino
- calabrese
- siciliano
Salutamu!
--Sarvaturi 12:22, 19 Marzu 2007 (UTC)
Dialettu di Caddhrìpuli
[cancia la surgenti]Marzo 2007
Il vernacolo di gallipoli e gli idiomi di terra d’otranto
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Lingua “vastasa” Gino Schirosi
Nel vernacolo, lingua materna, naturale e spontanea, meglio si esprimono le capacità d’impatto con i temi più toccanti del nostro tempo.
La lingua parlata o scritta, in quanto strumento di comunicazione e di cultura, ha in sé una storia così lunga e complessa da sintetizzare l’intera storia di un popolo, di una civiltà, quale che sia il divario di tradizioni, razze e religioni. Ma soprattutto il dialetto, lingua locale non meno nobile, epigono dei volgari medievali eredi sopravissuti alla lingua latina, è il più soggetto a fenomeni progressivi di corruzione fonetica e mutazione lessicale. Non solo. È persino probabile, ancorché lento, un processo di decadenza sino al fatale declino dovuto inevitabilmente ad abbandono, ad oblio.
La lingua della nostra terra e del nostro passato è davvero destinata a perdersi, smemorata insieme con la storia patria, con le radici? Il rischio è che potrebbero estinguersi non tanto dal nostro vocabolario quanto dal bagaglio della nostra cultura popolare voci storiche, ormai rare o desuete, tramandate dagli avi, un’eredità di cui dovremmo essere fieri senza il minimo di vergogna o di ingiustificato snobismo, sinonimo di gretta ignoranza. Quasi fosse superiore o elitaria la lingua italiana, al di là del suo valore e della sua importanza nelle relazioni ufficiali e burocratiche anche internazionali!
Spetta anzitutto ai poeti in vernacolo salvare il dialetto, mantenerlo vivo e presente specie tra i giovani della “civiltà” del benessere e del consumismo, educati dai “media” ad inseguire l’apparire più che l’essere, per tante ragioni i meno abituati a parlarlo, a utilizzarlo. In ogni modo, grande merito va a quanti si espongono in operazioni di revival linguistico, risultato di meditazioni immediate, come uno scavo affettivo più che nostalgico nello scrigno della memoria dove sono gelosamente custoditi sentimenti, ideali e valori eterni, che accompagnano l’uomo e la sua storia da secoli. Nel vernacolo, lingua materna, naturale e spontanea, meglio si esprimono le capacità d’impatto con i temi più toccanti del nostro tempo: il vissuto quotidiano, gli affetti, le tradizioni popolari, i drammi e i problemi sociali, la fede con le sue finalità morali e spirituali intrinseche, scaturite dall’inevitabile sentimentalismo lirico e dall’amore innato che un poeta dialettale nutre naturalmente per la sua terra natìa e per la sua gente, la cui storia rappresenta la sua stessa identità, la sua anima. La lingua (come glôssa) è parte anatomica importante dell’organo fonatorio deputato, quale strumento vocale, a modificare nel cavo orale tutti i suoni possibili prodotti dalle corde vocali, occludendo e modulando l’esplosione sonora con articolazioni variabili: tra i denti (suono dentale), tra le labbra (labiale), alla gola (gutturale), al palato (palatale), alla base della corona gengivale interna superiore (dentale cacuminale: a Gallipoli e relativo circondario ddh, altrove ddhr o ddr o dd). Solo con la combinazione dei suoni nasce nel discorso la parola (palabra in spagnolo, dal latino parabo×la e dal greco parabòle, ossia “confronto”, qual è la comunicazione scritta e orale oltre che l’allegoria insita nell’insegnamento morale di non pochi passi evangelici). Ma la lingua in senso lato, il linguaggio e la parola servono a manifestare idee, pensieri e moti dell’animo, a comunicare, a dialogare, come nella sua immediatezza fa il dialetto (dal greco dialéghein, appunto dialogare). Con l’invenzione della scrittura e poi dell’alfabeto fonetico ad opera dei Fenici, il suono, nato o prodotto in natura, viene fissato con un segno distintivo, convenzionale, simbolico, per divenire messaggio intelligibile e significativo da essere diffuso attraverso gli scambi tra genti lontane tra loro diverse. Così si è costruita la storia di ogni popolo, di ogni nazione, l’evoluzione di ogni idioma locale, regionale e nazionale. La storia dell’umanità è pure la storia di esperienze linguistiche e influenze lessicali le più dissimili, di interconnessioni che hanno generato variazioni e modifiche nel tessuto culturale dei popoli. Il dialetto è tuttavia la lingua maggiormente esposta al rischio di mutazioni inevitabili col conseguente allontanamento dalla tradizione latina, parametro costante di riferimento, e dal volgare toscano, lingua letteraria per eccellenza, la più fedele al latino per essere, solo all’indomani dell’Unità, elevata ufficialmente al rango di lingua nazionale. Indubbiamente, non senza l’apporto fondamentale del divino poema. Nel De Vulgari eloquentia, dopo approfondita analisi, Dante conclude la sua inchiesta da cui prende avvio la storia della questione della lingua italiana: tra i parlari della penisola italica il migliore è il fiorentino e, subito dopo, tra i meridionali insieme col siciliano colto della corte federiciana (noto nella fase già toscaneggiata), si distingue il pugliese salentino per la sua affinità con la scuola poetica siciliana. Solo in coda alla singolare graduatoria compaiono il pugliese murgese e il romano, idioma della capitale che tuttavia non ha dato origine alla lingua di un’intera nazione (come invece in Francia e in Inghilterra). Senza campanilismo, non è azzardato affermare che tra i dialetti di Terra d’Otranto il gallipolino è forse la lingua che ha di meno subìto processi d’imbarbarimento, conservandosi quanto possibilmente fedele alla lezione linguistica e lessicale del passato e soprattutto del latino da cui direttamente discende il toscano. Nel volgare di Gallipoli esistono determinati esiti fonetici pure corrotti all’interno di misurate regole fondamentali che ancora si conservano e vanno conservate insieme con tutte le norme relative alla morfosintassi e alla ortografia, indispensabili per sprovincializzare il dialetto e renderlo non solo leggibile e comprensibile da Bolzano a Trapani, ma pure fruibile a quanti non lo usano correntemente o non lo tengono in pratica e in conto.
Nonostante l’uso comune e ricorrente, linguisticamente erroneo, ancora tollerato e persino avallato da tesi imprudentemente semplicistiche di taluni sprovveduti o disinformati, i casi più particolari e consueti da rispettare, necessariamente nello scritto, sono: - ga/go=ca/co (gallina > caddhina, goccia > còccia); - ge/gi= esito ancor più marcatamente palatale (gelso > zezzu, vigilia > viscìlia); - d=t non sempre scontato (dolore > tulore, domenica > tumènaca); - o=u specie a fine parola (lupu, manu); - l=r spesso in metatesi (palora, rìsula, cròlia); - ll=ddh cacuminale (Caddhìpuli, Caddhiste, cuddhura); - sc=sibilante impura (àsŠcia) o palatale (ràscia); - gli=j (famìja, fìju); - z per lo più sonora come zanzara: z´ùccuru, màz´ara, puz´u (polso), da distinguersi dalla sorda specie se doppia: zèppula, zumpare, puzzu (pozzo); - bb=gg (mannàggia < male ne abbia, caggiula < gabbia, caggianu < gabbiano); - pi (da pl lt.)=chi (plate×a > piazza > chiazza, plenus > pieno > chinu); - pi (lt.)=cci (sep¦×a > sèccia=seppia, ap¦×um > làcciu=sedano, sap¦×o > sàcciu=so); - vocale iniziale elisa e apostrofo (‘ncora, ‘mparare, ‘ffucare, ‘mbìtia); - costanza di apofonia con passaggio in alpha d’origine dorica (giannìpuru, malone, ciacora, cialona, ciacala, ciapuddha, ciarasa, ‘ntaressu, raspettu, scianaru, sciannaru, sparanza, spantura, vantura, dafriscare, rafiatare, ssamijare, sciattare, ecc.); - assenza di dittongazioni o strane alterazioni sonantiche e consonantiche (come si notano nel leccese: cuerpu, luecu, muertu, puèspuru, puercu, fuecu, puertu, pueru, suennu, àutru, auzare, bàutu, fuesi, càusci, càusi, Mamminu, sennu, striu, riu, nèsciu, mègghiu, pègghiu, uardare, rande, ranu, rasta, rressu, rutta, nie, ecchi, ègghiu, ògghiu, famìgghia, fìgghiu, ecc.); - raddoppio della consonante iniziale (cci bboi ccu bbìsciu=cosa vuoi che io veda); - preferenza della subordinazione esplicita (ulìa ccu bbau, ccu bbegnu, ccu ssàcciu = vorrei andare, venire, sapere); - preferibile accentazione di vocaboli non piani onde ovviare a possibili equivoci e facilitare lettura e comprensione specie per i non avvezzi all’uso del dialetto. Operando un breve excursus linguistico attraverso alcuni significativi esempi nel Salento (buenu a Lecce, munnu a Maglie e circondario, pajare a Nardò, stia ad Alezio e contado, l’amici mia a Parabita-Matino, mie, mmie, tie, sule, sira, ura, parite, pisce, rite nel resto del Salento e specie nel Capo di Leuca, a fronte degli esiti gallipolini: bbonu, mundu, pacare, stava, l’amici mei, me, te, sole, sera, ora, parete, pesce, rete), si può evidenziare la tendenza del parlare gallipolino a rispettare possibilmente il volgare toscano e quindi la lingua italiana, dal latino discendenti. Nel dialetto di Gallipoli, peraltro, numerosi sono i termini italiani, in quanto è uso dire correntemente, come in parte accade altrove: mare, terra, luna, aria, luce, acqua, notte, casa, porta, chiave, pane, pasta, latte, carne, sale, pepe, lingua, ventre, anca, fame, arte, ponte, nave, vela, campagna, pastore, cane, animale, rosa, spina, canna, fava, vigna, ecc. (ma àrburu de fica, de mila, de pira, de ulìa…); e ancora: amore, anima, nascita, vita, morte, fine, mese, legge, giudice, signore, fede, messa, ostia, comunione, misericordia, litania, candela, festa, sposa, campana, tomba, pace, ecc. (con qualche corruzione: scatti ‘mpace, donna bisòdia, cannone, pistola, santarmònium, sicutera, recumeterna, dominusubbiscu, misererenobbi, amme...); inoltre “pioggia” non esiste se non come acqua de celu (così in tutte le regioni italiane); capu e nive sono più latini; stoccafisso poi è dall’anglosassone stockfish, pesce seccato, ma è più giusto, perché letterale, il nostro stoccapesce; infine voci come “madre” e “padre”, insieme con una ricca griglia di parole relative alla famiglia, si distinguono per accompagnarsi con l’enclitica possessiva declinabile solo al singolare: màuma-màmmata-màmmasa, sìrama-ta-sa, màdrima, matrìama, patrìuma, fìjama, fìjuma, fràuma, sòruma, nònnuma, nònnama, zìuma, zìama, napòtama, crussupìnama, crussupìnuma, caniàtuma, caniàtama, nòrama, scènnuma, sòcrama, sòcruma, mujèrama, marìtuma, parèntama, nùnnuma, nùnnama, cummàrama, cumpàrama, suscèttama, suscèttuma, cumpàgnuma, ecc. Si tralascia e si rinvia invece ad altra sede e occasione la parentesi di tutta l’ittionomastica (del linguaggio marinaresco) e si può solo aggiungere che non sono mancati influssi da lingue straniere come: spagnolo pràja, francese pòscia, arabo scapece, anglo-germanico varra (gioco infantile). Del latino sono particolari: ‘cciommu (“ecce homo”, disse Pilato alla folla presentando Cristo flagellato), segnummeste (segnum est, è segno, significa, cioè), sanametoccu (sana me de hoc malo, mentre ci si tocca la parte anatomica che si vuole proteggere e salvare da qualche male), busulàriu (stato di agitazione da post sudarium), ppòpputu (chi abita post oppidum, lontano dalla città, nel contado), caremma (l’orrido fantolino che simboleggia la quaresima, da quadragesima). La tradizione greca infine è particolarmente interessante a conferma dell’influenza che la città ionica, a differenza di Nardò e Lecce (immediatamente latinizzate), ha subìto nella sua antica storia (la colonizzazione dorica tarantina nel 367 a.C., dopo l’oscura fase messapica, la lunga dominazione bizantina, lo stanziamento dei cenobi basiliani a seguito della persecuzione iconoclastica dopo l’800). E il fenomeno è comune ad una vasta area geografica che insiste nella direttrice Gallipoli-Galatina-Otranto con al centro la Grecìa Salentina. Quanto ai grecismi, questo, in sintesi, un rapido e brevissimo campione, alquanto emblematico e significativo: àpulu, beddhusinu, calafatu, calime, candaula, canza, carassa, carpìa, cascione, castima (-are), catapet, catapràsumu, centra, chìraca, crasta, cùfiu, cumba, cuneddha, làvana, levarsìa, lòffiu, mattra, màzara, naca, nachiru, òsumu, pèntuma, pòspuru, pràsumu, prèvete, putrìmisi, rappa (-are), rumatu, salassìa, scalisciare, sciacuddhu, scùfia, sima (-are), sita, sparatrappa, spàrgane (-eddhe), spàsumu, spràsumu, stizzu, strafica, stricare (-aturu), stumpone, suscitta, tampagnu, tarrassu, trigni, trizza, tròzzula, ttuppare, tuzzare (-aturu), vastasi. Sicché sembra ovvia qualche riflessione al riguardo, relativamente a detti, motti e proverbi coinvolgenti alcuni dei suddetti etimi, non più frequenti tra le giovani generazioni ma in verità non così rari nel linguaggio comune e popolare. La “crasta” è un vaso da fiori, di forma panciuta, solitamente di terra cotta: corrisponde al greco gastér (ventre, pancia) e poi passa in: nap. grasta (coccio), tar. grasta, sal. crasˆta, cal. gastra o grasta, sic. grasta. Famoso il detto “cantare la crasta” (“imprecare contro qualcuno”), che ha origine da un antico canto popolare meridionale, e siciliano in specie. Viene in mente il finale della nota novella Lisabetta da Messina di Boccaccio. Quando i due fratelli mercanti si accorsero della relazione amorosa della sorella Lisabetta col domestico, a insaputa della ragazza e a tradimento lo eliminarono brutalmente e lo seppellirono in aperta campagna. La scomparsa dell’innamorato la portò all’afflizione, ma in sogno il giovane le rivelò l’accaduto indicandole il luogo preciso della sepoltura. Lei, in gran segreto, si recò sul posto, scoprì il delitto e riportò a casa la testa recisa del cadavere. La nascose dentro il vaso di basilico e tutta la giornata era intenta ad annaffiare la pianta con le sue lacrime. Ma i fratelli insospettiti, trovata furtivamente la testa della vittima sepolta nel vaso, lo fecero sparire con tutto il contenuto. A quel punto Lisabetta, disperata, accentuò il suo tormento e il suo dolore. In cerca spasmodica del vaso di basilico che le era stato sottratto (furare = rubare) e continuamente fuori di sé, andava gridando dalla finestra contro chi si era macchiato dell’atroce misfatto: «Chi fu lo malo cristiano che mi furò la grasta?». Ma non è altro che un’antica ballata medioevale raccolta prima dal Pitrè e dal Rapisarda e poi dallo stesso Carducci nelle sue rivisitazioni della poesia popolare antica. Quanto al motto “Beddhusinu t’ogni manestra”, il detto si riferisce a persona sempre e comunque presente in qualsiasi situazione, questione, affare, circostanza. Si tratta ovviamente del prezzemolo, che non è scontato debba entrare a condire tutte le pietanze di ogni ricetta culinaria. È detto petrosino in sic., cal. e nap., ma deriva dal gr. petrosélinon (sorta di sedano che attecchisce tra le pietre). Dai Greci era usato per coronare i vincitori dei giochi istmici o delle Nemee (Pd., Diod. 16,79; Luc., 49,9) ed era utilizzato anche per corone sepolcrali. Interessanti alcuni proverbi: selìnou deìtai, ha bisogno di prezzemolo, ossia è in fin di vita, come si legge in Plut. Tim. 26, M. 676 e Artem. 77; oppure oud’en selìnou in Arist. Vesp. 480 (nemmeno al prezzemolo, ovvero al principio di qualcosa, in quanto si piantava all’ingresso dei giardini). Un altro detto popolare è “Malatitta ddha naca ca te nnazzacau” = sia maledetta quella culla che ti dondolò, ti cullò, quindi la tua nascita e la tua razza (dal gr. md. nàka, gr. ant. nàke = vello di pecora, a mo’ di culla, sospeso, tal quale tutt’oggi conoscono alcuni paesi come Manduria; sic., cal., luc. naca; pugl. sett. e tar. nache; ma, dopo la linea Salerno-Lucera, s’incontra cuna-cunna-cònnula-culla). L’etimo “pèntuma”, genericamente scoglio (“precipizio” in sardo), appartiene al triangolo Gallipoli-Galatina-Nardò; ma è pèntima nel triangolo Lecce-Casarano-Otranto, mentre altre sono le accezioni nel Salento: pèntema, pèntama, pèndema. Se l’origine della voce per Rohlfs è prelatina (“rupe”), per Devoto invece è mediterranea (“pendìo su laghi vulcanici”). Indubbiamente la radice resta greca e appartiene ad una griglia semantica di cui fa parte pénthos (dolore), donde pénthimos (lugubre, doloroso), da comparare col gr. ant. pénthema e gr. mod. pénthima (lutto e dolore), etimi ricorrenti in Eschilo ed Euripide. Il passaggio finale al significato gergale si deve al fatto che lo scoglio suscita senso di impressione, pericolo, una sensazione d’angoscia non solo di fronte ad un fortunale ma anche per l’assillante e lamentoso sciabordio delle onde sulla scogliera (lu rùsciu de lu mare). La voce indeclinabile “vastasi”, infine, equivale al più antico bastasi (o bastagi, b>v), facchino, lavoratore portuale, scaricatore di porto (< gr. Bastàzo, trasporto sulle spalle un carico). Talora assume valore dispregiativo (vastasi de chiazza) per divenire vastasone, mascalzone, maleducato. Questa categoria è stata particolarmente importante nell’economia gallipolina sino al primo ‘900, al tempo dei traffici dell’olio lampante, esportato nel nord Italia e in Europa esclusivamente per illuminazione. L’argomento si connette con i Giudei-ebrei residenti in Gallipoli fino al 1540 (espulsi con decreto reale dalla contrada Giudecca, presso il Seno del Canneto). A tal proposito si ricorda che alcuni individui (detti sciutei de la bara, che sta per ipocriti e traditori), vestiti di tunica a lunghe bande verticali policrome, abiti tipicamente ebraici, reggevano per penitenza o espiazione, il giorno della Passione, l’Urna del Cristo morto. Era la processione della confraternita di Santa Maria della Purità appartenente ai portuali o scaricatori di porto, appunto vastasi, classe sociale non più trainante delle sorti economiche della città ionica per le tristi condizioni in cui oggi, purtroppo, versa in particolare il suo porto commerciale.
http://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/2007/I/art/R07I125.htm
Pecche u salentinu ete sicilianu?
[cancia la surgenti]Pecche considerare u salentinu comu na parlata o addirittura nu tialettu o variante tu sicilianu? Suntu muti i cristiani, spessu siciliani, ca lu considerane tale. Quannu nun ete ca stanne cusi e cose, puttroppu incia (intra) lu salentu nu se cunta sicilianu era bonu ci era cusi, a menu siciliani e salentini se putiane capire tra de iddi usannu a stessa lingua. Jeu penzu ca sicilianu e salentinu suntu comu l'italianu e lu spagnolu, parune listessi ma cu forti tiffesenze. Aggiu dire ca a prima fiata ca trasei incia sta wiki u sicilianu(consideratu lingua) me paria mutu chiù bicinu a l'italianu te quantu pare u salentinu (consideratu dialettu ) soprattuttu pe l'usu du italianu di (comu di casa) an posta de te o de (comu te casa) ma quiste suntu considerazioni personali nu suntu ciuveddi jeu cu dicu ca u sicilianu nun ete na lingua sulu ca penzu ca era chiú giustu scucchiare (spartire) u sicilianu du salentinu ziccannu (cuminzannu) a penzare u salentinu comu lingua fàvurennu u sviluppu sou. Ca già tra de nui facimu nu picca de fatica cu ne capimu ma benumale tutte e varianti salentine suntu intercomprensibili grazie puru alla "salentizzazione" de certi termini italiani e alla diffusione chiu massiccia de quarche termine salentinu rispettu a addi ,crazie a internet a tv a ratiu e la musica e le scole superiori a dunca carusi te diverse vanne se acchiane e se scanciane e parlate (comu pe esempiu stria ca prima se dicia sulu a lecce o fiata ca a certe zone se dice propriamente ota ma sà diffusu puru fiata) . Ma poi ci na face fare cu cuntamu tialettu? Cuannu poi nc'ete l'italianu? Me dumannu comu faciane i ntichi te doi sicilie cu comunicavane ? Saluti a le signurie osce. Alfredo.